venerdì 30 maggio 2008

Comprendere è quasi giustificare


Martina Buckley invita i bloggers che le condividono a pubblicare queste parole di Primo Levi.
Aderisco all'iniziativa e in questi tempi bui spero che lo facciano in tanti.

Io non comprendo, ma non dimentico che "se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre."


Forse, quanto è avvenuto non si può comprendere, anzi, non si deve comprendere, perché comprendere è quasi giustificare. Mi spiego: «comprendere» un proponimento o un comportamento umano significa (anche etimologicamente) contenerlo, contenerne l’autore, mettersi al suo posto, identificarsi con lui. Ora, nessun uomo normale potrà mai identificarsi con Hitler, Himmler, Goebbels, Eichmann e infiniti altri. Questo ci sgomenta, ed insieme ci porta sollievo: perché forse è desiderabile che le loro parole (ed anche, purtroppo, le loro opere) non ci riescano piú comprensibili.

Sono parole ed opere non umane, anzi, contro-umane, senza precedenti storici, a stento paragonabili alle vicende piú crudeli della lotta biologica per l’esistenza. A questa lotta può essere ricondotta la guerra: ma Auschwitz non ha nulla a che vedere con la guerra, non ne è un episodio, non ne è una forma estrema. La guerra è un terribile fatto di sempre: è deprecabile ma è in noi, ha una sua razionalità, la «comprendiamo».

Ma nell’odio nazista non c’è razionalità: è un odio che non è in noi, è fuori dell’uomo, è un frutto velenoso nato dal tronco funesto del fascismo, ma è fuori ed oltre il fascismo stesso. Non possiamo capirlo; ma possiamo e dobbiamo capire di dove nasce, e stare in guardia. Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre.

Per questo, meditare su quanto è avvenuto è un dovere di tutti. Tutti devono sapere, o ricordare, che Hitler e Mussolini, quando parlavano pubblicamente, venivano creduti, applauditi, ammirati, adorati come dèi. Erano «capi carismatici», possedevano un segreto potere di seduzione che non procedeva dalla credibiità o dalla giustezza delle cose che dicevano, ma dal modo suggestivo con cui le dicevano, dalla loro eloquenza, dalla loro arte istrionica, forse istintiva, forse pazientemente esercitata e appresa. Le idee che proclamavano non erano sempre le stesse, e in generale erano aberranti, o sciocche, o crudeli; eppure vennero osannati, e seguiti fino alla loro morte da milioni di fedeli. Bisogna ricordare che questi fedeli, e fra questi anche i diligenti esecutori di ordini disumani, non erano aguzzini nati, non erano (salve poche eccezioni) dei mostri: erano uomini qualunque. I mostri esistono, ma sono troppo pochi per essere veramente pericolosi; sono piú pericolosi gli uomini comuni, i funzionari pronti a credere e ad obbedire senza discutere, come Eichmann, come Höss, comandante di Auschwitz, come Stangí, comandante di Treblinka, come i militari francesi di vent’anni dopo, massacratori in Algeria, come i militari americani di trent’anni dopo, massacratori in Vietnam.

Occorre dunque essere diffidenti con chi cerca di convincerci con strumenti diversi dalla ragione, ossia con i capi carismatici: dobbiamo essere cauti nel delegare ad altri il nostro giudizio e la nostra volontà. Poiché è difficile distinguere i profeti veri dai falsi, è bene avere in sospetto tutti i profeti; è meglio rinunciare alle verità rivelate, anche se ci esaltano per la loro semplicità e il loro splendore, anche se le troviamo comode perché si acquistano gratis. E meglio accontentarsi di altre verità piú modeste e meno entusiasmanti, quelle che si conquistano faticosamente, a poco a poco e senza scorciatoie, con lo studio, la discussione e il ragionamento, e che possono essere verificate e dimostrate.

È chiaro che questa ricetta è troppo semplice per bastare in tutti i casi: un nuovo fascismo, col suo strascico di intolleranza, di sopraffazione e di servitú, può nascere fuori del nostro paese ed esservi importato, magari in punta di piedi e facendosi chiamare con altri nomi; oppure può scatenarsi dall’interno con una violenza tale da sbaragliare tutti i ripari. Allora i consigli di saggezza non servono piú, e bisogna trovare la forza di resistere: anche in questo, la memoria di quanto è avvenuto nel cuore dell’Europa, e non molto tempo addietro, può essere di sostegno e di ammonimento.

Primo Levi

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giovedì 29 maggio 2008

Nun so' ffascista /1

il Che Guevara sorpreso in un attimo di sconforto dopo aver letto l'intervista"«Eccome qua, io sarei il nazista che stanno a cercà da tutti i pizzi. Guarda qua. so´ nazista...». La mano sinistra solleva la manica destra del giubbetto di cotone verde che indossa, scoprendo la pelle. L´avambraccio è un unico, grande tatuaggio di Ernesto Che Guevara"

"Io sono nato il primo maggio, il giorno della festa dei lavoratori"

se volevo nascere fascista nascevo il 29 luglio come Mussolini, no?

"...e al nonno di mia moglie, nel ventennio, i fascisti fecero chiudere la panetteria al Pigneto perché non aveva preso la tessera"
praticamente sono un martire della resistenza per interposta persona, ccioè in senso ereditario, no?

"...Perciò, se proprio serve un nome a casaccio, scrivi Ernesto..."
Er-ne-sto. VISTO??
(dall'intervista fatta da Carlo Bonini (Repubblica) ad uno dei responsabili del raid squadrista al Pigneto)



lunedì 26 maggio 2008

Quando non avremo più bisogno di capri espiatori?


Quando finalmente riusciremo a guardare in faccia le nostre paure, chiamarle con il loro nome e non permettere a nessuno di usarle per manovrarci, per dividerci, per renderci ottusi e violenti?

Di seguito il testo dell'appello, del pressante appello rivolto a tutti noi dai Giuristi Democratici.

Non c'è molto da aggiungere, a parte che queste parole sono anche mie e che penso vadano diffuse in ogni modo, perché non si spenga la voce della ragionevolezza, soffocata dalle urla di odio e dai proclami.



Come preannunciato, uno dei primi temi che il governo Berlusconi affronta è la cosiddetta "questione sicurezza". Le misure ipotizzate destano un fortissimo allarme e vengono giustificate anche per mezzo di una campagna di stampa e televisiva alimentata ad arte.

Il bisogno di sicurezza costituisce un'aspirazione di ogni cittadino a vivere in una società ospitale, accogliente, priva di paure e di fenomeni di criminalità, in un clima di solidarietà.
Si tratta di un'aspirazione giusta e seria con la quale, dunque, occorre confrontarsi seriamente.

Viceversa, stiamo assistendo ad una campagna di stampa, alimentata ad arte dal nuovo Governo, che tende a rappresentare il bisogno di sicurezza, sovente confuso con la sensazione di insicurezza, come la necessità di una società più repressiva non solo e non tanto nei confronti dei soggetti che delinquono, ma anche e soprattutto nei confronti dei "diversi", siano essi nomadi (non a caso, é stato rispolverato il termine dispregiativo, per anni scomparso dall'uso quotidiano, di "zingari"), extracomunitari, omosessuali o delinquenti.

Chi cavalca questa campagna di stampa intende scaricare sul "diverso" la responsabilità per una situazione di insicurezza complessiva, che si vuole trascurare per ridurla unicamente ad una insicurezza da microcriminalità, certamente esistente e da combattere, ma non certamente l'unico male che affligge la nostra società.
Scaricando su determinati individui o categorie di individui la rabbia del cittadino comune si crea un capro espiatorio che ci consente (?) di avere la sensazione di una risposta alla violenza, ma che non consente certamente di recuperare quel patto di solidarietà di cui tutti avremmo bisogno e che ci consentirebbe una vita serena.
In particolare, occorre smitizzare con forza la proposta identificazione della criminalità con l'immigrazione, quasi non esistesse la criminalità nostrana, ben forte, invece, come dimostrano, anche visivamente, alcune situazioni territoriali.

Non solo, ma il prezzo che viene pagato in termini di sacrificio dei diritti inviolabili della persona per tutti coloro che vengono individuati come capri espiatori, é assolutamente inaccettabile; già l'Unione Europea ha avuto modo di lanciare moniti all'Italia per le notizie che vengono da esponenti del nuovo Governo circa le misure che sarebbero in fase di realizzazione; mai si potrà ammettere che diritti umani fondamentali vengano sacrificati in nome di una risposta a esigenze, anche giuste, dei cittadini; un tale ragionamento rischia di portare come sua conseguenza, da un lato, alla introduzione della pena di morte per i casi di reati particolarmente efferati e all’abbandono della concezione rieducativi del carcere per coloro che abbiano più volte commesso reati, dall’altro, alla legittimazione di comportamenti privati da parte di cittadini che si facciano giustizia da sé: i recenti fatti di Napoli sono istruttivi, in questa logica, e certamente essi rischiano di non restare fatti isolati: ronde, giustizia del "fai da te" possono estendersi a macchia d'olio, anche grazie all'enfatizzazione che di questi fenomeni viene compiuta da maggioranza e mezzi di comunicazione.

In una situazione politica di asserita pacificazione, c'é il rischio concreto che manchi in Parlamento una voce forte che si alzi a contrastare quei provvedimenti annunciati, così limitativi della libertà e della dignità degli individui; apprendiamo con un qualche sollievo che il PD ha espresso la sua contrarietà all'introduzione del reato di immigrazione clandestina; speriamo che questo sia il segnale di un atteggiamento di rigida difesa dei principi di uguaglianza e di libertà, che sono, o dovrebbero essere, patrimonio di tutta l'umanità, ma che certamente sono valori fondanti della nostra Costituzione.

Perché questi principi vengano difesi in maniera rigorosa, i Giuristi Democratici
rivolgono un pressante appello
a tutti i democratici italiani, a coloro che hanno sempre creduto che ogni discriminazione vada combattuta, che ritengono che il fenomeno dell'immigrazione sia determinato da squilibri nell'assetto dell'economia globale del pianeta, tali da costringere masse di persone a riversarsi nel mondo opulento per sfuggire alla miseria ed alla morte, che una scelta non é necessariamente giusta perché fatta democraticamente dalla maggioranza dei cittadini, che pensano che i "diversi" vadano tutelati in maniera ancora più rigorosa perché hanno meno difese, che ritengono che le iniziative "private" dei cittadini per una giustizia autogestita costituiscano il prodromo per una generalizzazione della violenza che fa a meno dello Stato, cui le parole degli esponenti leghisti sull'uso delle armi conferisce nuova linfa, affinché si alzi un forte coro di allarme contro questa deriva antidemocratica e razzista, per invitare le forze politiche della sinistra a mantenere alto il livello di difesa per la salvaguardia di quei principi insiti nella Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, nella nostra Costituzione e nella Carta di Nizza.

Vogliamo concludere ricordando i versi, molto spesso ricordati, ma evidentemente non compresi nella loro tragica attualità, di Bertolt Brecht:

Prima di tutto vennero a prendere gli zingari e fui contento
perchè rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei e stetti zitto
perchè mi stavano antipatici.
Poi vennero a prendere gli omosessuali e fui sollevato
perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti ed io non dissi niente
perchè non ero comunista.
Un giorno vennero a prendere me e non c'era rimasto
nessuno a protestare.


Torino, 20 maggio 2008.

ASSOCIAZIONE NAZIONALE GIURISTI DEMOCRATICI




ps: lo so che ho la sindrome della maestrina... i versi - parafrasati - dovrebbero essere di Martin Niemöller, pastore luterano oppositore del nazismo e internato nei campi di concentramento. Insomma uno che di persecuzioni e capri espiatori, odio cieco e campagne di persuasione ne sapeva più di qualcosa...
Sono versi molto famosi e soprattutto molto belli, tanto che penso non sia male ricordarli qui:
Prima vennero per i comunisti,
e io non dissi nulla
perché non ero comunista.

Poi vennero per i socialdemocratici
io non dissi nulla
perché non ero socialdemocratico

Poi vennero per i sindacalisti,
e io non dissi nulla
perché non ero sindacalista.

Poi vennero per gli ebrei,
e io non dissi nulla
perché non ero ebreo.

Poi vennero a prendere me.
E non era rimasto più nessuno che potesse dire qualcosa.


(la foto è tratta dal sito dell'ARCI Roma)



venerdì 23 maggio 2008

All stars! (e non è una squadra di basket)

Tutti i giorni, che piova o ci sia il sole, radio, tv, carta stampata, internet... non c'è scampo: mi informano con sollecitudine che il Nikkei sale.

Un filo di preoccupazione fa vibrare la voce della giornalista in tailleur, che mi partecipa che il Dow Jones ha una certa tendenza al ribasso. Ahi.

"Le blue chips godono di ottima salute", ci ho piacere: pure a casa mia tutti bene.

E il mibtel? non mi lasciate in ansia: sale, SALE?

Mi spiazza un attimo il commento sull'andamento delle All Stars... ma non era una squadra di basket? boh.

Ma quanti sono quelli che al mattino aspettano di conoscere l'andamento delle monete, le quotazioni di borsa, le performance del Nasdaq? E quanti di noi EFFETTIVAMENTE ci capiscono qualcosa?

Ma soprattutto: con 'sti chiari di luna, quanti precari, pensionati, casalinghe (di Voghera, ma anche no) hanno i risparmi investiti in borsa? E pure tra i diciamo 'benestanti' non credo che tiri più tanta aria da 'gioco in borsa e mi faccio ricco': basta dire 'Parmalat' e scappano via urlando...

Anche quei piccoli gruppetti di persone (prevalentemente maschi) che si vedevano, sempre silenziosi e raccolti con le mani dietro la schiena, di fronte ai monitor nelle vetrine delle banche, dove scorrono instancabili cifre e percentuali azionarie, ve li ricordate? A me pare che non si vedano più (che fine avranno fatto? saranno passati avanti dai monitor delle sale corse?)

Insomma, un bel chissenefrega liberatorio non lo possiamo dire?

Ma non bastano le riviste e i programmi specializzati? Chi lo fa di mestiere, chi ci investe qualcosa, non ci potrebbe fare il piacere di comprare Milano Finanza, guardare i programmi di Friedman e non scassarci i cabasisi, come direbbe il buon Moltalbano?

E invece no: non c'è tiggì senza la sua bella pagina di borsa e valute.

Ho sempre avuto il sospetto che questa invasiva presenza di notizie semi-incomprensibili ai più, con il suo mantra ipnotico di sigle e numeri, avesse l'unica funzione di instillarci il sacro rispetto per l'Economia e la Finanza (quelle con la maiuscola);
farci capire che il soldo deve girare, produrre, riprodursi;
rassegnarci al primato dell'economia: quello per cui bisogna "rendere il paese appetibile per gli investitori" (queste entità potenti e misteriose a cui i governi fanno complessi riti propiziatori...).

Anzi: meno ci si capisce nelle notizie economiche e meglio è, così ci si rassegna subito che se una fabbrica chiude, se i prezzi aumentano, se l'acqua non è più pubblica, non è che ci si può fare qualcosa, non è la conseguenza di una politica economica, di scelte precise e comprensibili che si potrebbero anche cambiare, no: sono le conseguenze ineluttabili di quei misteriosi e arcani movimenti di soldi, quello scendere e salire di percentuali, quel turbinoso scambio lontano e incomprensibile, che si manifesta nelle nostre vite attraverso grandi e piccole catastrofi: come le grandi forze della natura.

Insomma, che ci riguarda, che è ineluttabile, ma che noi, semplici cittadini sfigati non lo possiamo capire, questo mondo, solo accettarlo.

ps:
Eppure c'è una assenza tenace, un indice che giace, ignorato, in un angolo polveroso dei grafici. Signori, perché non mi parlate mai dell'Euribor?

per chi non lo sapesse

"l'Euribor (acronimo di EURo Inter Bank Offered Rate, tasso interbancario di offerta in euro) è un tasso di riferimento, calcolato giornalmente, che indica il tasso di interesse medio delle transazioni finanziarie in Euro tra le principali banche europee" (wikipedia, grazie di esistere).
Insomma è l'indice che condiziona l'ammontare delle rate dei mutui a tasso variabile, l'unico indice che davvero interessa direttamente un sacco di persone. E vi pare poco? Ma sull'Euribor neppure una parola, una riga. Sai mai, che riuscissimo a capirci qualcosa, eh?



martedì 20 maggio 2008

Già, che fare?

Che fare? Precetti per l'intellighenzia di sinistra
se mai serve a qualcosa la parola ineffabile, serve a definire G.O.D.



ricordare Giorgiana Masi


con qualche giorno di ritardo, un ricordo per Giorgiana Masi, uccisa il 12 maggio 1977, a 19 anni.

Uccisa da un colpo di pistola alla schiena mentre manifestava per il terzo anniversario della legge sul divorzio, lei, giovane donna del movimento femminista.

Non c'è ancora una verità ufficiale su questa morte, quel che è certo è che sono impressionanti le tante foto di poliziotti in borghese e armati, che puntano le armi ad altezza d'uomo in quel giorno a Roma: questa di fianco, notissima, l'ho presa da Carmilla.

E mentre ancora l'anno scorso l'ex Presidente della Repubblica Cossiga dice di sapere ma non parla, semina allusioni, illazioni, mezze parole, per un altro ex presidente, quello della commissione stragi Giovanni Pellegrino, le parole pronunciate da Cossiga sull'accaduto confermerebbero come "quel giorno ci possa essere stato un atto di strategia della tensione, un omicidio deliberato per far precipitare una situazione e determinare una soluzione involutiva dell'ordine democratico".

Per continuare a sperare che un giorno si conosca la verità bisogna che intanto il passato non venga dimenticato: chi passa di qui e non conosce la storia di Giorgiana, spenda qualche minuto per leggere la pagina di wikipedia, o quella su reti invisibili, o meglio ancora su Carmilla il bellissimo articolo con cui Camilla Cederna nel 1979 commentava il Libro Bianco dei radicali sulla morte di Giorgiana.

Come in Fahreneit 451, tutti dovremo essere memoria vivente della storia di questo paese. Questa memoria che è sempre più stravolta, negata, calpestata, dimenticata, da molti semplicemente mai conosciuta. E' diventato un dovere civile.
"E quando
ci domanderanno
che cosa
stiamo facendo,
tu potrai
rispondere loro:
NOI RICORDIAMO.
Ecco dove alla lunga
avremo vinto noi."
(Ray Bradbury, "Fahrenheit 451")



le voci della sua coscienza



"Ho una vecchiaia serena. Tutte le mattine parlo con le voci della mia coscienza, ed è un dialogo che mi quieta. Guardo il Paese, leggo i giornali e penso: ecco qua che tutto si realizza..."


mi è scappato un commento iconografico al post che Luposelvatico ha pubblicato ieri sul suo blog, e che va letto, perché fa riflettere: guardando indietro adesso, tutto torna. Fin troppo.

Che il lato oscuro della Forza sia con te, baby...



lunedì 19 maggio 2008

banalità, il tuo nome è Monnezza


'Non è stato inserito il capitolo rifiuti nell'odg di mercoledì a Napoli perchè sarebbe stato banalizzante'.
Parola del ministro Rotondi.

Mentre una intera città, un'intera regione, soffoca sotto montagne di rifiuti che coprono strade e campi ed è lentamente avvelenata da montagne di rifiuti tossici sepolte sotto strade e campi; mentre i roghi dei cassonetti ne illuminano sinistramente le notti (allegri contrappunti ai roghi dei campi nomadi) e ne avvolgono i giorni di fumo soffocante; mentre la diossina dei roghi sta silenziosamente invadendo i corpi, preparando future ecatombi di tumori, endometriosi, malformazioni; mentre l'estate si avvicina a grandi passi e il caldo farà marcire e fermentare le 2400 tonnellate di immondizia che la invadono, rendendo Napoli un inferno sulla terra, è bello sapere che c'è chi si preoccupa di rendere le sedute e l'agenda del Consiglio dei Ministri originali, inaspettate, creative.

Se poi i napoletani avevano capito che dicendo "terremo a Napoli il primo consiglio dei ministri" Berlusconi sottintendeva che il primo punto all'ordine del giorno sarebbe stato quello dell'emergenza rifiuti, è perché non sanno pensare con originalità. Ah, il popolo bue.

L'obiettivo era una bella pizza tutti insieme alla Bersagliera, ad un tiro di schioppo dal Palazzo Reale, dove i nostri si riuniranno. Pizza salsiccia e friarielli, naturalmente, chè con la bufala di questi giorni è meglio andarci cauti.

I milanesi sono avvertiti: il SECONDO Consiglio dei Ministri, annunciato a Malpensa, ovviamente non si occuperà di Alitalia; è stato già prenotato però un tavolo al Savini: risotto alla milanese e osso buco per tutti.

In entrambi i casi, l'obiettivo è nobile e la strategia sagace: promuovere il made in Italy diffondendo immagini della squadra di Governo che si delizia con i prodotti tipici delle nostre regioni.



sabato 17 maggio 2008

vocabolari

«Nel vocabolario del ministro dell'Interno non esiste la parola sanatoria», ha detto Roberto Maroni.

Potrebbe farsi prestare il vocabolario dal suo collega Tremonti, lì la parola sanatoria c'è di sicuro.



venerdì 16 maggio 2008

Suite Francese

Irène scriveva, caparbiamente cercava di terminare la sua 'sinfonia', il suo ambizioso affresco dei suoi tempi. Presto, doveva fare presto: sapeva che prima o poi sarebbero venuti a prenderla, ed allora per lei sarebbe stata la fine.

Era il 1942, l'Europa era a ferro e fuoco e a Parigi c'erano i nazisti. Irène Némirovsky, giovane mamma di due bambine, scrittrice, ebrea russa, forse si aggrappava alla scrittura, al suo progetto di 'sinfonia in cinque romanzi' che raccontasse la Francia della sconfitta, dell'occupazione, per non sentire i minacciosi scricchiolii che preannunciavano il crollo del suo mondo.

E scriveva con una scrittura piccola piccola: tante formichine minuscole in interminabili file sui fogli, per risparmiare la carta, ormai sempre più difficile da trovare.

Il 13 luglio 1942 bussano alla sua porta, il tempo di salutare le bambine, forse, e la portano via, destinazione il campo di Pithiviers. E da lì Irène andrà a morire ad Auschwitz. Senza poter rivedere le figlie, che dovranno fuggire e nascondersi, sempre a rischio di vita fino alla fine della guerra; senza salutare il marito, che la seguirà di lì a poco nello stesso destino; senza poter terminare la sua sinfonia.

Gli unici due romanzi che Irène Némirovsky fece in tempo a scrivere, dei cinque che aveva in mente, sono raccolti in questa Suite francese: Temporale di giugno e Dolce
Sono romanzi bellissimi entrambi, delicatissimi e disincantati insieme. A cui, per quanto posso giudicare, la traduzione rende piena giustizia.

temporale di giugno
Il temporale è l'arrivo dei tedeschi, il loro veloce approssimarsi a Parigi: tuoni in lontananza le voci che si rincorrono, lampi all'orizzionte le notizie che ne cadenzano l'approssimarsi. Seguiamo i preparativi di famiglie ed individui, le esitazioni, il rincrescimento: ciò che si deve lasciare con rammarico e ciò che ci si porta dietro con testardaggine. Le case sistemate come per una assenza indefinita, le famiglie sotto casa che incongruamente, con sublime incapacità di comprendere, stipano le macchine come per una vacanza, o una visita ai parenti in provincia. Irrinunciabili le lenzuola ricamate; vorrai mica lasciare qui il triciclo del pupo?; i gruppi che si separano, gli accordi, gli appuntamenti per l'arrivo… i piccoli intoppi, i bambini da sistemare, i soliti dispetti in famiglia… Chi va con la cadillac, chi con un carretto a mano, chi a piedi, chi cerca di prendere gli ultimi treni che lasciano la città, che viene abbandonata come un formicaio che sta per essere raggiunto dall'onda di piena, che lo sommergerà.

Tratteggiati con mano delicata e sottili spietatezze via via incontriamo esponenti dell'aristocrazia - del sangue e del pensiero - coppie di piccoli impiegati, famiglie di grand commis con servitù al seguito. Ognuno con le sue ossessioni, le sue paure e le sue piccinerie. Ma di ognuno di loro spiamo anche i moti dell'animo più umani, sono esseri capaci di slanci e di improvvise lucidità, o di riflessioni che illuminano la pagina. Ma anche, infine, di una brutalità senza nome e senza senso.

Tutti sono colti in un momento straordinario: quando la Storia batte un colpo e non ce n'è più per nessuno tutte le piccole storie degli individui vengono stravolte, annichilite o glorificate, a seconda del caso e del capriccio. Nello stra-ordinario del bisogno, della paura, soprattutto del grande movimento di massa, ognuno tira fuori il peggio o il meglio di sé, la propria vera natura, forse, che non aspettava altro che di essere rivelata. O forse solo gli angoli qui squallidi, avidi e meschini della nostra anima, quelli che nella vita di tutti i giorni simuliamo anche a noi stessi, cancelliamo e seppelliamo sotto le mille maschere che ci permettono di vivere.

E questa varia umanità, così francese e così 1940 per un verso, è anche una commedia umana che racconta qualcosa di eterno, che ci parla di noi, della nostra zia zitella, del burocrate del piano di sopra, della starlette della tv del pomeriggio, del tuttologo pieno di sé che occhieggia dalle copertine nelle edicole. Pochi comunque sono i personaggi davvero e univocamente positivi, in cui si finisce per identificarsi, sostanzialmente una coppia di bancari di mezza età, uniti da un amore tenero e saldo, dal pensiero dell'amatissimo figlio in guerra e - soprattutto - da un'etica 'antica', fatta di moderazione e 'pietas'.

In questo affresco corale tutti sono in movimento, tutti scappano e si muovono in una singolare anarchia, la libertà che ubriaca e abbatte i freni 'sociali' del "si fa-non si fa", quando le gerarchie sono allentate; eppure - gratta gratta - la vernice dell'educazione e delle apparenze viene via inevitabilmente. Quello che resta scoperto sotto di essa è l'essere nudo, impudico e vertiginoso, capace di rubare il pane, uccidere, fare la spia ma anche di dividere l'ultima risorsa, accogliere, curare.

È anche un grande 'bestiario' di una società in cui si è inesorabilmente divisi in classi, dove il ricco, il povero, il contadino e il borghese si comportano senza via di scampo da quello che sono, e sembrano destinati immutabilmente ad essere. La Némirovsky mostra di avere un 'occhio' sociale molto attento, ma anche una concezione della società estremamente statica, finanche reazionaria. Ma è una figlia dei tempi e - lei sì - della sua classe.

Dolce
Dolce è Lucile, moglie infelice ma rassegnata; e dolce è la campagna francese, con i colori dei suoi tramonti, i giardini curati delle case nei villaggi, i rumori di una natura sensuale e come distante dagli affanni umani: i paesaggi, i profumi, i colori sono sempre presenti nel narrare, struggenti e delicati come acquarelli, ma c'è una nota amara in fondo a queste descrizioni ariose e melanconiche: la tenace alienità del mondo naturale, che vive di una sua vita immemore, che avvolge gli affanni umani senza mai riuscire a guarirli, in cui solo un gatto riesce davvero ad immergersi con pienezza, a lasciarsi inebriare, a VIVERE le sensazioni: i personaggi colgono fiori, cacciano di frodo, coltivano fragole… ma mai davvero vengono 'guariti' delle loro malattie e dei loro dolori, mai davvero ascoltano quel richiamo che tutto attorno a loro silenziosamente grida, che la storia passa, avidità ed ambizioni, doveri e convenzioni sono di passaggio, che un profumo, la sfumatura di un cielo, le sensazioni della pelle sono le uniche cose reali e - soprattutto - le uniche in cui può esserci felicità. Da questo sottile, silenzioso contrasto che mi è sembrato intessere una trama fitta 'al di sotto' della storia, scaturisce quel sottile amaro che si confonde con il dolce, quella durevole ansietà che pare aleggiare.

Il titolo è in italiano nell'originale: un richiamo alla terminologia musicale, in accordo con lo spirito dell'opera. Ed in effetti la cosa più dolce è proprio il respiro del testo, il 'movimento' della scrittura.

Anche questo romanzo, come tempesta di giugno racconta un preciso momento storico, quello subito successivo della Francia stabilmente occupata. E lo fa attraverso una coralità di personaggi, questa volta gli abitanti di un paesino della eterna provincia francese. Al centro la storia d'amore, repressa e non vissuta, tra un ufficiale tedesco e Lucile, il cui marito è prigioniero in Germania.

Lucile lentamente spegne senza combattere, nel grigiore, la sua anima delicata, la sua raffinata bellezza e la sua vivace intelligenza, nella cupa casa dove vive con la suocera, legata al figlio lontano da un amore tenace e quasi ossessivo, dura rappresentante di quella 'stirpe' che della provincia francese è l'ossatura: i medi proprietari terrieri, custodi della morale della famiglia e del soldo, diffidente verso i mezzadri e i contadini - rappresentanti del minaccioso e incomprensibile mondo del lavoro manuale così come della atavicamente ostile cultura contadina - così come verso l'aristocrazia terriera - finanziariamente incapace, fantasma di un potere che scolora -. La nuora per lei è una creatura in fondo disprezzabile: troppo diversa da suo figlio per essere la moglie che lei vorrebbe per lui, troppo lontana dai suoi valori per essere affidabile, incomprensibile nei suoi pensieri e nei suoi gesti (come leggere romanzi), e soprattutto nella sua docilità la suocera intuisce oscuramente una sottile ribellione al suo mondo, a ciò che lei rappresenta. Lucile è eternamente ospite nella casa del marito, neppure troppo gradita.

L'ufficiale tedesco, Bruno, la scuote dal suo letargo; raffinato e cortese, con un fondo di affilata durezza virile, prussiana e militare, egli rappresenta il mondo che è in fondo la patria dell'anima di Lucile: il mondo dell'arte, della musica, della letteratura. Esiliata da sempre da questo universo, cui pure la sua anima oscuramente aspira, Lucile ha uno spirito fiammeggiante e appassionato, che neppure lei si conosce e che l'arrivo di quest'uomo sensibile e passionale risveglia. Ma troppo è ciò che li separa: le convenienze, la morale, la guerra: lui è l'occupante…
Attorno a loro, sentimenti e caratteri si dipanano e la Némirovsky anche qui sa essere spietata nel rivelare le piccinerie, le ottusità della vita di paese e che vieppiù prendono il sopravvento durante un'occupazione, quando c'è un padrone della vita e della morte da combattere o adulare. Ma al tempo stesso non dimentica mai quando sia difficile vivere, quando sia inumana la piena coerenza, quanto siano fragili le anime.

il romanzo di un romanzo
la bella edizione di Adelphi non si limita ai due romanzi: in fondo riporta ampii stralci del diario di Irène Némirovsky dei cupi giorni della guerra, fino alla sua deportazione (un diario che è anche un quaderno d'artista denso di preziose riflessioni sulla scrittura che andava proseguendo) e il carteggio che in quei convulsi anni coinvolse lei, i suoi editori e poi suo marito che disperatamente cercava notizie, aiuto, sostegni per salvarle la vita e tutti coloro a cui lui si rivolse. Infine una interessante postfazione che racconta la figura di questa donna, la sua vita avventurosa e tragica, le vicende successive che coinvolsero le sue figlie e lo stesso manoscritto di Suite francese.
Tutto ciò rappresenta il 'romanzo' di questo romanzo, ce lo mostra mentre viene immaginato, progettato, e poi scritto, limato, al centro dei pensieri della sua autrice mentre attorno a lei divampa l'incendio che le brucerà la vita, come una zattera di bellezza in tempi bestiali. E' commovente vedere la foto di una pagina del suo quaderno, dove scriveva il testo del romanzo e a fronte le sue riflessioni e i suoi pensieri, rende ai nostri occhi più bello il romanzo e per i nostri cuori più emozionante l'esperienza della lettura. Questi quaderni neri, che immaginiamo dimessi e sgualciti, non furono mai abbandonati dalle figlie di Irène, che - seppure per anni non ebbero il coraggio di leggerli -, non li abbandonarono mai mentre fuggivano per la Francia inseguite da occhiuti persecutori: due bambine ebree, orfane e malate, rifugiate in cantine e soffitte e convitti, che nonostante tutto sopravvivono alla guerra e avranno il destino di ricostruire la figura e l'opera di questa madre persa così presto, di raccontarla al mondo.

il romanzo di una vita
Irène sembra ai miei occhi una figura da romanzo: dall'infanzia ricca ma anche infelice, nella Russia degli zar, con un padre affarista e distante (il ricco affarista ebreo di tanta propaganda antisemita di quei tristi anni!) ed una madre da 'Balocchi e profumi', arida e superficiale, innamorata della propria immagine: pare di vederla Irène bambina, mi appare rigorosamente in un bianco e nero sgranato da cinema muto, con i riccioli acconciati ed una vestina da bimba aristocratica, mentre da una porta socchiusa guarda con i suoi tristi occhioni neri la madre che folleggia (una lunga veste di seta, uno scialle esotico, un diadema di piume nell'acconciatura) con qualche damerino… Poi la rivoluzione, la paura, il nascondiglio e la fame, la fuga, il viaggio attraverso un'Europa già in subbuglio, l'esilio dorato parigino, con Irène che, già giovane donna della buona società, assapora la vita, si innamora, si sposa, coltiva il suo talento letterario, diventa madre… tutto ciò immemore o incurante delle sue origini, della sua cultura, che sembra in fondo contare così poco per lei, a volte addirittura rappresentare la sua infelicità familiare, tutto ciò che odia. Ma saranno proprio quelle origini a segnare il suo destino. Anche qui, ce lo possiamo immaginare quanto questo la lasciasse incredula, attonita. Un film, davvero, la metafora di una generazione forse… invece no: vita vera di una donna vera, che ci ha lasciato un complesso, delicato, raffinato, durissimo romanzo. Da leggere, senza dubbio. Anche per non dimenticare, mai.

  • titolo italiano: Suite Francese

  • casa editrice: Adelphi
  • anno: 2005
  • città: , Milano
  • titolo originale '"Suite Française"'
  • a cura di: Denise Epstein e Olivier Rubinstein
  • postfazione: Myriam Anissimov
  • traduzione di: Laura Frausin Guarino



giovedì 15 maggio 2008

Ovviamente

Ovviamente dipende da quel che si dice
No, dico: cominciamo bene.

Non che mi meravigli, ma pensavo che aver fatto cappotto li rendesse un po' concilianti, almeno al principio.

Pensavo che aspettassero un po' prima di fare di quest'aula sorda e grigia un bivacco per i loro manipoli.

Poi ieri ho guardato il tiggì ed ho sentito CON LE MIE ORECCHIE il Presidente della Camera Fini dire a Di Pietro, che si lamentava dei continui schiamazzi che lo interrompevano dalla maggioranza, che lui (Di Pietro) non era nuovo della Camera e sapeva come andavano queste cose. E fin qui, transeat: è un po' come dire, "signora mia, bisogna aver pazienza, lo sa come sono i ragazzi!", ma va lasciamo perdere.

PPerò poi, bello come il sole, ha aggiunto "dipende da quel che si dice"

E qui, scusate ma a me è andato di traverso il boccone.

Dipende da quel che si dice, non c'è dubbio: se stai attento a non esprimere critiche, non urtare la sensibilità della Nuova Destra, non formulare pensieri anche solo vagamente (parliamo di Di Pietro!) di sinistra, ALLORA vedrai che ti lasciamo parlare. Altrimenti... beh, insomma te la sei voluta, no?

Non aggiungo nulla, va' che è meglio.

ps:
Però: che brutti tempi quelli in cui bisogna essere contenti che c'è Casini che difende la democrazia parlamentare



mercoledì 14 maggio 2008

Tempo di dichiarazione dei redditi: tu a chi dài il tuo 8 per mille?

Cos’è l’8 per mille?
La prendo un po’ da lontano e parto dal Concordato del ’29: allora lo Stato italiano si impegnò a pagare lo stipendio al clero (cattolico), con la cosiddetta congrua.
Perché poi uno Stato laico debba finanziare le pratiche di culto e l’organizzazione di una confessione religiosa… Va da sé che dovrebbero essere i cattolici a finanziare la loro Chiesa, almeno a me pare così.

Comunque nel 1985 finalmente la congrua fu eliminata, ma il finanziamento uscì dalla porta e rientrò dalla finestra: fu inventato l’8 per mille, OPM per gli amici ;->

Inizialmente prevedeva la possibilità per i contribuenti di scegliere se destinare l’OPM delle proprie tasse alla Chiesa cattolica o allo Stato. Furono poi aggiunte all’elenco dei possibili beneficiari altre confessioni. Trasparente, no? No.

Perché in realtà funziona in modo strano: l’ammontare dell’8 per mille dei contribuenti che non esprimono nessuna opzione viene ripartito proporzionalmente alle quote destinate. Cioè se l’80% di quelli che hanno espresso una scelta ha scelto la Chiesa Cattolica, andrà alla Chiesa Cattolica anche l’80% dell’8 per mille di tutti quelli che non hanno espresso nessuna scelta. Peccato che molti pensano che non esprimendo preferenze il loro OPM vada allo Stato...

Nel 2004 per esempio solo il 40% dei contribuenti ha espresso una scelta. Di questi circa il 90% ha scelto la Chiesa cattolica: 36 contribuenti su 100, quindi. Ma al Vaticano va il 90% del totale, cioè anche il 90% dell’8 per mille delle MIE tasse. Per dirla con Cinzia Sciuto su Micromega:

"Immaginiamo che alla prossima dichiarazione dei redditi un solo contribuente esprima la sua preferenza e la dia alla Chiesa cattolica: in questo caso, poiché il 100 per cento delle scelte espresse ha indicato la Chiesa cattolica come destinatario, tutto l’otto per mille di tutti i contribuenti andrà alla Chiesa cattolica"
In pratica se non scegli c’è chi sceglie per te. Bel meccanismo democratico, eh?

La parte del leone: la Chiesa cattolica
E non parliamo di brustulini, come dicono qui a Bologna: nel 2007 la Chiesa Cattolica ha ricevuto 987 milioni di euro.

Quasi un miliardo delle nostre tasse che finanzia la CEI. E se mi dite che verranno spesi per fare “opere di bene”, quindi in favore della collettività, vi rispondo che - alla faccia degli spot che si vedono in questi giorni - la Chiesa cattolica nel 2007 ha utilizzato il 20% dell’8 per mille per “opere caritatevoli”, il resto va "per esigenze di culto della popolazione” e “sostentamento del clero”.

Ed ecco che la congrua rientra, con un elegante volteggio, dalla finestra. Alè.

E a proposito della campagna pubblicitaria: non è esattamente una robetta economica e fatta in casa: quella per il 2005 è costata 9 milioni di euro, come spiega questo articolo di Curzio Maltese su Repubblica. Peccato che a guardarla pare che con l’OPM alla Chiesa cattolica si finanziano solo opere di bene.

Ma COME li spende esattamente la Chiesa questi soldi pubblici? Ho provato a curiosare un po’ sul sito della CEI dedicato all’OPM e ci ho trovato qualche esempio interessante, nel 2007 sono andati:
  • ai tribunali ecclesiastici regionali: 9 milioni di euro
  • al fondo catechesi ed educazione cristiana: 40 milioni di euro
  • al sostentamento dei sacerdoti: 354 milioni di euro
Prendiamo i tribunali ecclesiastici regionali. Per chi non lo sapesse si tratta della Sacra Rota, quella che dichiara la nullità di un matrimonio dal punto di vista della Chiesa, come non fosse mai avvenuto, così ti puoi risposare. Vi ricordate Casini?

Se volete sapere a che istituzione sono fini questi 9 milioni (delle nostre tasse), sulla Stampa, che non è certo un giornale di agitatori mangiapreti, c’è un articolo dall’esplicativo titolo Grandi affari alla Sacra Rota.

Certo che, come al solito, quando si tratta di rapporti con la Chiesa l’Italia fa proprio storia a sé e lo spiega bene il bel servizio di Report Vita, morte e miracoli un confronto tra Italia e Stati Uniti che dedica molta attenzione alle diverse forme di finanziamento delle rispettive Chiese.

Ah, quasi mi dimenticavo, la ciliegia sulla torta: ve lo ricordate il Family Day? Allora leggete qui:
“un preventivo di spesa di oltre 1 milione di euro […] Ma il soccorso arriva dall’8 per mille. Fin dalla nascita, nel 1992, il Forum delle famiglie è sostenuto dalla Cei attraverso due canali. Il primo è la voce “opere di culto e pastorale di rilievo nazionale” nella ripartizione dei fondi dell’8 per mille. Un capitolo di spesa che dal 1992 al 2005 è cresciuto da 9 a 49 milioni di euro, per scendere a 36,5 milioni di euro nel 2006. Beneficiano di tali somme, oltre al Forum delle famiglie, tutte le principali associazioni cattoliche promotrici del Family day. Secondo canale di finanziamento del Forum delle famiglie da parte della Cei: i fondi gestiti dal servizio per il progetto culturale, anch’essi provenienti dall’8 per mille, destinati a iniziative e convegni di rilievo nazionale. Nel complesso è difficile quantificare quanto il Forum delle famiglie annualmente riceva dai fondi dell’8 per mille: il sistema di finanziamento è molto articolato. Ma si può stimare in una cifra che va da 300 a 500 mila euro. Ecco come la “provvidenza” farà quadrare i conti del Family day”
(da Panorama: Family Day: chi paga? La CEI con l’8 per mille)

Allora, capiamoci: ognuno è libero di pensare ciò che gli pare e manifestare per ilsuo pensiero, ma IO non condivido neppure una virgola del Family Day. Qualcuno mi spiega perché devo contribuire alle spese? Se permettete, un po’ mi arrabbio.

E la quota dello Stato?
Poi mi arrabbio ancora di più quando leggo che dei fondi 2004 il 44,64% delle quote destinate allo Stato vengono utilizzate per “conservazione beni culturali legati al culto cattolico” (fonte wikipedia). Alla faccia di tutti quelli che optano per lo Stato come scelta di laicismo!

E sarebbe niente: da sempre lo Stato considera il vincolo di destinazione dell’OPM con grande disinvoltura, nel ’99 ci ha finanziato addirittura la missione in Kossovo. Da qualche anno una bella fetta (80 milioni di euro annui) dell’OPM destinato allo Stato viene stabilmente sottratto all’utilizzo previsto (calamità naturali, fame nel mondo, rifugiati etc) e riportato nel calderone. E usati come? L’unica cosa che pare certa è che in parte siano stati utilizzati per finanziare le missioni militari italiane all’estero, in particolare Iraq e Afghanistan. Un bello schiaffo a noi contribuenti pacifisti, no?

Perché poi non alla ricerca?
Già, perché poi tra gli scopi a cui devolvere l’8 per mille non c’è la ricerca?

Molti laici (e anche tanti credenti) lo farebbero volentieri, se ne avessero la possibilità. Perché la ricerca aiuta tutti, i fondi non sono mai abbastanza e gli obiettivi giustamente ambiziosi, e la “fuga dei cervelli” dipende anche dalla scarsita di risorse.

C’è chi se lo domanda e c’è anche una proposta di legge.

Perché il mio 8 per mille va alla Chiesa Valdese
Voi naturalmente fate quello che vi sentite, ma io il mio 8 per mille lo do da sempre alla Chiesa Valdese.
E quest’anno mi sento proprio in buona compagnia:
"Di fronte all’offensiva clericale volta a limitare irrinunciabili libertà e diritti civili degli individui (che andrebbero invece decisamente ampliati), e alla subalternità e passività dello Stato nelle sue istituzioni parlamentari e governative, benché non credenti in alcuna religione, in occasione della dichiarazione dei redditi invitiamo tutti i cittadini democratici a devolvere l’otto per mille alla Chiesa Evangelica Valdese che le libertà e i diritti civili degli individui ha sempre rispettato e anzi promosso, e che si è impegnata ad utilizzare i proventi dell’otto per mille esclusivamente in opere di beneficenza e non a scopo di culto o di sostegno per i ministri e le opere della propria confessione religiosa."
Questo è il testo dell’appello promosso da Micromega, e tra i primi firmatari ci sono: Umberto Eco, la mia adorata Margherita Hack, Andrea Camilleri (e secondo me lo firmerebbe pure Montalbano!), Dario Fo – che in queste battaglie è sempre in prima fila -, Michele Santoro, Oliviero Toscani, Lella Costa, Vasco Rossi e Simone Cristicchi, Giorgio Bocca, registi come Ferzan Ozpetek, Bernardo Bertolucci e Mario Monicelli, Paolo Flores d’Arcais...

E mi pare particolarmente importante la presenza di autorevoli firme cattoliche, che aggiungono una “postilla”:
“L'appello promosso da MicroMega è stato sottoscritto anche da personalità del mondo cattolico con questa nota aggiuntiva: "Noi cittadini cattolici, che tentiamo di testimoniare nella vita sociale ed ecclesiale un fedeltà la più coerente possibile al Vangelo e quindi critici e scandalizzati nei confronti di una politica dei vertici ecclesiastici sempre più tesa a usare il potere che deriva dal danaro, dalle clientele, dalle influenze politiche, dal dominio sulle coscienze per condizionare la politica degli stati e in particolare di quello italiano, riteniamo legittimo e forse doveroso negare a questo potere ecclesiastico il sostegno dell’8 per mille IRPEF."

Seguono diverse firme tra cui quelle di don Enzo Mazzi, animatore di una esperienza di cattolicesimo di base e sociale come la Comunità dell’Isolotto, Giovanni Franzoni, don Vitaliano Della Sala, un altro prete “scomodo” per le gerarchie ma amatissimo dalla sua comunità.
Nell’appello ci sono i motivi principali per cui anch’io scelgo la Chiesa Valdese, ma qualcosa la vorrei aggiungere.

La Chiesa valdese ogni anno pubblica un bilancio dettagliato su come utilizza i fondi che riceve dall’8 per mille. E li usa tutti ed esclusivamente per scopi sociali e assistenziali: non un euro va a finire al culto, ai religiosi o alle attività confessionali.

Mi piace come pensa ed agisce la Chiesa valdese sui temi “caldi” del presente: sulla laicità dello Stato, per esempio, sulla scuola pubblica, o su procreazione assistita, interruzione di gravidanza, ricerca scientifica. Per chi avesse voglia di approfondire, il Sinodo valdese ha espresso concetti molto saggi e insieme molto “umani” in questo documento, che ho trovato per caso e letto con interesse: I problemi etici posti dalla scienza.
Difendono la laicità dello Stato, dimostrando che essere credenti non vuol dire non riconoscere le basi di uno stato laico e i diritti civili: i valdesi sono a favore dei Dico!
“Il compito delle chiese non è quello di dettare legge sulle questioni che regolano la vita sociale e per le quali occorre rispettare la laicità dello Stato che invece è di tutti”
è l’incipit di un articolo sui Dico pubblicato sul loro sito e scritto da un teologo.

E voglio aggiungere un’ultima cosa, a cui tengo molto, soprattutto dopo l’odioso omicidio di Verona (gesto fascista, non bravata di teppisti): a settembre dell’anno scorso i militanti di Forza Nuova hanno manifestato contro la comunità valdese, per il sostegno da essa espresso alla legge 194.

Questi signori, che nel nostro paese normale si presentano tranquillamente alle elezioni (alla faccia del reato di apologia del fascismo), hanno come al solito manifestato la loro visione della vita e del mondo lasciando in giro scritte come “valdesi al rogo” (qui la foto)
La parte più oscura e oscurantista del paese vede nella Tavola Valdese un nemico. Quest’anno più che mai dare a loro l’8 per mille è giusto: è anche un modo per esprimere solidarietà.

Pensaci, prima di non scegliere. Soprattutto se sei una donna e pensi che la legge 194 sia una conquista di civiltà e di salute, o se convivi e ti stai ancora mangiando le mani per i PACS, o se hai problemi di fertilità e dopo il referendum sulla procreazione assistita l’unica chance che hai è andare all’estero, se hai i soldi per farlo… Come scrive Chartitalia
“tali soldi scippati dalle tasche degli italiani vengono quindi usati anche per gestire la meticolosa invadenza della Chiesa nelle cose politiche italiane, con i vari Ruini a dirci quello che tutti (cattolici e non cattolici, praticanti e non praticanti, credenti e non credenti) devono fare, e pensare, su procreazione assistita, interruzione della gravidanza, PACS.
E sinanche su chi e cosa votare, come dimostrato dal vergognoso appoggio dato da Radio Maria alle recenti e passate elezioni politiche.
Già. Per promuovere forze politiche i cui esponenti risultano divorziati, conviventi more uxorio, fedifraghi, guerrafondai, mafiosi accertati, truffatori, corruttori e corrotti. Amen.”
Come dirlo meglio?




NB:
  • A chi volesse approfondire, segnalo un ampio dossier, da cui hanno pescato molti degli articoli che ho letto e linkato, l'ha scritto Annapaola Laldi e lo trovate sul sito dell'ADUC.
  • Il testo della legge lo trovate qui sul sito dell'U.A.A.R. Unione Atei e Agnostici Razionalisti, che hanno anche una sezione molto informata sull'argomento



venerdì 9 maggio 2008

Oggi è morto Peppino Impastato


«Nato nella terra dei vespri e degli aranci, tra Cinisi e Palermo parlava alla sua radio,
negli occhi si leggeva la voglia di cambiare, la voglia di giustizia che lo portò a lottare,
aveva un cognome ingombrante e rispettato, di certo in quell'ambiente da lui poco onorato,
si sa dove si nasce ma non come si muore e non se un ideale ti porterà dolore.»
(Cento passi - Modena City Ramblers)

E' il 9 maggio 1978. Peppino Impastato viene ucciso, il suo corpo smembrato dal tritolo viene fatto ritrovare lungo i binari della ferrovia. Stampa e forze dell'ordine parlano prima di un fallito attentato e poi di un suicidio. Addirittura.

E' il 9 maggio 2008. Ricordare la morte di Peppino è un dovere più urgente che mai: ci hanno promesso che cambieranno i libri di storia.

Probabilmente i ragazzi e le ragazze che nei prossimi anni apriranno con uno sbuffo il proprio libro di storia per fare i compiti a casa troveranno scritto che Giuseppe Impastato era un giovane dinamitardo che morì nel tentativo di far saltare un treno. O forse che era molto depresso e decise per un suicidio col botto.

Adesso più che mai è il tempo di ricordare. E, ricordando, di raccontare. Perché nessuna memoria vada persa, perché chi avrà diciott'anni nel prossimo decennio quando pensa la parola eroe pensi Peppino Impastato e non Vittorio Mangano.

Nel mio piccolo di principiante-blogger ho voluto ricordare Peppino Impastato con una lista di links. L'invito a chiunque passi di qui è, quando va via, di lasciare questo sito cliccando su un sito contro la mafia, la camorra, la 'ndrangheta, la sacra corona unita. Le tante teste dell'idra che sta lentamente strangolando questo paese.



Marcello dell'Utri a Klaus Davi: "I libri di storia ancora oggi condizionati dalla retorica della Resistenza, saranno revisionati, se dovessimo vincere le elezioni. Questo è un tema del quale ci occuperemo con particolare attenzione"



mercoledì 7 maggio 2008

Chi ha paura di Vincenzo Visco?

Beh, questa volta ho deciso di provare a fare qualcosa: sono stanca di masticare amaro, scuotere il capo davanti alla tivvù, o limitarmi all'ennesimo sfogo tra amici.

La realtà che i giornali e la televisione mi mostrano non è quella che vedo con i miei occhi tutti i giorni, le pontificazioni di opinionisti e sondaggisti mi hanno francamente un po' stufato; ma soprattutto ho deciso che se le mie opinioni, la mia indignazione, il mio modo di vedere la vita è "fuori moda" - che poi è tutto da dimostrare! - non per questo me ne sto zitta e buona.

E allora comincio dall'ultima storia che non mi va giù: NON SONO D'ACCORDO con il coro che condanna la pubblicazione dei dati fiscali del 2005 sul web. Non condivido l'iniziativa del Codacons, non mi sento violata nella mia privacy di contribuente. Non ho nessun problema a vedere i miei redditi sul web, trovo che la trasparenza del fisco sia un ottimo deterrente all'evasione, credo che tutto il polverone di questi giorni e il gran parlare di invidia sociale faccia comodo solo ha chi ha i suoi buoni motivi per temere la trasparenza e l'informazione.

Ma giornali e tv mi fanno sapere che faccio parte di una infima minoranza, che gli italiani sono tutti indignati da questa gravissima violazione della privacy... e ho deciso di vedere se c'è qualcun altro che la pensa come me.

Di seguito c'è il testo della lettera aperta che ho scritto, spendi qualche minuto del tuo tempo per leggerla, per favore. E se la condividi sottoscrivila a questo indirizzo:
http://firmiamo.it/chihapaura

grazie del tuo tempo :-)




CHI HA PAURA DI VINCENZO VISCO?
Noi no.

Leggiamo con sconcerto e amarezza di denunce, esposti e richieste di risarcimento danni nei confronti del Vice Ministro Visco e del direttore generale dell'Agenzia delle Entrate, dott. Romano per la pubblicazione su internet dei dati sui redditi 2005. Il risarcimento richiesto ammonterebbe a ben 20 miliardi di euro, che dovrebbero essere destinati a tutti i contribuenti italiani nella misura di 520 euro ciascuno.

Vogliamo dire con forza che queste iniziative ci sembrano incomprensibili – e soprattutto non condivisibili – sotto molti aspetti.

Intanto, chiedere allo Stato un esborso enorme, delle dimensioni di una manovra finanziaria (e neppure delle più leggere) e in un momento già così difficile per il paese, ci pare davvero dissennato e contrario agli interessi dei cittadini di questa già disastrata Repubblica. Ci chiediamo semplicemente: se andasse in porto una tale richiesta quante strade non si riparerebbero, quanti risarcimenti alle vittime del lavoro, di mafia, delle stragi non verrebbero erogati, quanti posti letto in ospedale non si creerebbero, quante nuove scuole materne non si costruirebbero? E potremmo continuare a lungo.

Leggiamo che i 20 miliardi di risarcimento andrebbero redistribuiti tra tutti i contribuenti: ma è possibile che qualcuno faccia finta di non sapere che, considerate le statistiche sull’evasione fiscale, tristemente note a tutti noi, una bella fetta di questo denaro pubblico andrebbe graziosamente a finire nelle tasche di tanti evasori fiscali? E siamo davvero al paradosso: come contribuenti piuttosto che sentirci "risarciti" ci sentiamo due volte beffati.

Sondaggi ed opinionisti ci dicono che la stragrande maggioranza degli italiani è contraria a questa pubblicazione. Sarà, ma siamo un po' stanche/i di sentirci raccontare la realtà dai sondaggi, preferiamo guardarci attorno e parlare con le persone e quello che ascoltiamo - nel nostro piccolo - è un paese pieno di gente indignata perché una misura così semplice ed ovvia di trasparenza, in uso già in tanti altri paesi, trova tanta opposizione. Forse saremo pochi a pensarla così, chissà, però anche se non siamo opinionisti e non ci invitano nei salotti tv, non vogliamo rinunciare a far sentire la nostra voce.

In questi giorni giornali e TV si dànno un gran da fare a condannare l’invidia sociale. Noi non soffriamo di invidia sociale, ma neppure la temiamo: non ci preoccupa che i nostri redditi, alti o bassi che siano, vengano conosciuti, non abbiamo nulla da nascondere, paghiamo le tasse e ne siamo orgogliosi (anche se molti lo considerano da fessi) e il nostro reddito è il prodotto del nostro lavoro (e anche questo forse ormai non è trend).

Ma in un paese in cui la forbice sociale si allarga sempre di più, in cui la vita e il reddito sono sempre più precari, mentre sempre più persone scivolano nell’indigenza, ci indigna che l'argomento del giorno sia l’invidia sociale e non piuttosto l’egoismo sociale di chi per il profitto specula sugli aumenti dei beni di consumo primario, risparmia sulla sicurezza del lavoro, evade le tasse.

Siamo convinti che la vera vergogna non sia l’invidia sociale ma la tolleranza sociale per l’elusione e l’evasione fiscale, che altro non sono che il rifiuto di contribuire secondo le proprie possibilità al benessere di tutti e al progresso del paese.

Sentiamo con sconcerto parlare di guardoni fiscali e voyeurismo fiscale, con una metafora che ci fa riflettere, come se il denaro che si possiede fosse una cosa intima e personale come il corpo, il sesso, i sentimenti: purtroppo non ci pare che il privato, i corpi, le emozioni e la vita delle persone vengano difese con altrettanto vistoso entusiasmo quando se ne vìola la privacy: che messaggio viene da tutto ciò? Davvero oggi è il denaro il più sacro e profondo elemento costitutivo dell’identità, il più intimo, quello da difendere più fieramente?

O forse più terra-terra dobbiamo pensare che si ha davvero paura di scoprire troppi altarini? Che questi dati diano adito a valutazioni e riflessioni sulla distribuzione del peso fiscale che fanno paura a troppi? Che lavoratori dipendenti e pensionati, ma anche i tantissimi autonomi, commercianti, imprenditori che fanno il proprio dovere avendo un quadro così chiaro della situazione decidano di far sentire con più forza la propria voce (e magari pretendere qualche fattura in più?).

Non mettiamo in discussione la buona fede dei singoli e delle associazioni dei consumatori, l'obbligo dei magistrati di fare il proprio dovere, crediamo però che sia in atto una energica campagna di demonizzazione di una misura che ha la sola colpa di voler dare un forte segnale di trasparenza e che presenta il solo rischio di dare il via ad un meccanismo di controllo democratico e collettivo sulla piaga dell'evasione fiscale.

Ci convincono le argomentazioni che l'Agenzia delle Entrate ed il Vice Ministro Visco adducono: crediamo nella preminenza in questo ambito di un principio di trasparenza, sappiamo dell'esistenza di un obbligo di pubblicazione e non vediamo questa gran differenza tra la carta stampata e Internet: forse che i lettori di un giornale sono più identificabili dei navigatori o che i contenuti dei giornali non siano già reperibili nel web? L'utilizzo del web è stato in questi anni sostenuto e prescritto per trasparenza, partecipazione e diritto di accesso della Pubblica Amministrazione.

Abbiamo quindi fiducia che il procedimento in corso riconosca le ragioni dell'Agenzia delle Entrate, e con esse quelle di tutti coloro che le tasse le pagano.

Infine, e cosa più importante, crediamo che la battaglia più difficile, ma anche fondamentale per l’Italia sia quella per un fisco equo, per la solidarietà sociale che viene dalla redistribuzione delle risorse fiscali, dalla possibilità di ridurre finalmente le aliquote e il prelievo sul reddito, cosa che solo la sconfitta dell’evasione fiscale può permettere.

Questa battaglia ha purtroppo visto in questi anni tante, troppe sconfitte; e l’impotenza e la frustrazione degli onesti e dello Stato e dei suoi funzionari.

Per questo, in un paese in cui si depenalizzano i reati finanziari (che sempre danneggiano la collettività), i condoni non si contano, l’evasione si "concilia" con lo sconto, noti evasori vengono ospitati con tutti gli onori nel servizio pubblico televisivo e sulla stampa, noi chiediamo alle “nostre” associazioni, che tante volte ci hanno rappresentato e difeso di non spendersi in battaglie di retroguardia che, anche se condotte con la massima convinzione e buona fede, rischiano di confonderle con la difesa di ben altri interessi, ma di combattere su questo fronte e se risarcimento dev’essere di chiederlo a chi evade ed ha evaso, a chi ha condonato, per l’incalcolabile danno che ha fatto a tutti noi: per questo chiediamo almeno che dai 20 miliardi vengano sottratti i nostri 520 euro: non li vogliamo.