«Nato nella terra dei vespri e degli aranci, tra Cinisi e Palermo parlava alla sua radio,
negli occhi si leggeva la voglia di cambiare, la voglia di giustizia che lo portò a lottare,
aveva un cognome ingombrante e rispettato, di certo in quell'ambiente da lui poco onorato,
si sa dove si nasce ma non come si muore e non se un ideale ti porterà dolore.»
(Cento passi - Modena City Ramblers)
E' il 9 maggio 1978. Peppino Impastato viene ucciso, il suo corpo smembrato dal tritolo viene fatto ritrovare lungo i binari della ferrovia. Stampa e forze dell'ordine parlano prima di un fallito attentato e poi di un suicidio. Addirittura.
E' il 9 maggio 2008. Ricordare la morte di Peppino è un dovere più urgente che mai: ci hanno promesso che cambieranno i libri di storia.
Probabilmente i ragazzi e le ragazze che nei prossimi anni apriranno con uno sbuffo il proprio libro di storia per fare i compiti a casa troveranno scritto che Giuseppe Impastato era un giovane dinamitardo che morì nel tentativo di far saltare un treno. O forse che era molto depresso e decise per un suicidio col botto.
Adesso più che mai è il tempo di ricordare. E, ricordando, di raccontare. Perché nessuna memoria vada persa, perché chi avrà diciott'anni nel prossimo decennio quando pensa la parola eroe pensi Peppino Impastato e non Vittorio Mangano.
Nel mio piccolo di principiante-blogger ho voluto ricordare Peppino Impastato con una lista di links. L'invito a chiunque passi di qui è, quando va via, di lasciare questo sito cliccando su un sito contro la mafia, la camorra, la 'ndrangheta, la sacra corona unita. Le tante teste dell'idra che sta lentamente strangolando questo paese.
Marcello dell'Utri a Klaus Davi: "I libri di storia ancora oggi condizionati dalla retorica della Resistenza, saranno revisionati, se dovessimo vincere le elezioni. Questo è un tema del quale ci occuperemo con particolare attenzione"
1 commento:
Come commento a questo post, ecco una storia antimafia che capita dalle mie parti....
ciaooooo!
La cascina dei sogni dove la mafia non comanda più.
Di Attilio Bolzoni, Repubblica, 23/12/2007
San Sebastiano Po (Torino)
E’ in cima alla collina che vogliono andare. Là sopra c’è una cascina. C’è un fienile. C’è una stalla. C’è un campo scosceso dove pianteranno alberi da frutto e c’è un piccolo orto dove faranno crescere i pomodori.
L’altro Natale Don Luigi li aveva incontrati per annunciare che quella sarebbe stata la loro grande casa, questo Natale firmeranno le carte per diventare una sola famiglia. E’ in cima alla collina che vogliono vivere. Tutti e dodici. Elena e Andrea con Rachele, la loro bimba.Angelo, Matteo, Francesca e l’altro Andrea con la figlia Matilde. E poi Anna, Dino, Riccardo e Cristina. Tre coppie, due bambini, quattro single. Il loro desiderio è prendersi per mano, fare un po’ di strada insieme.
La cascina una volta era dei Belfiore, boss della ‘ndrangheta trapiantati in un Piemonte nascosto a neanche trenta chilometri da Torino. Il capo si chiama Mimmo, è quello che nel 1993 aveva ordinato l’uccisione del procuratore Bruno Caccia. A suo fratello Sasà aveva intestato le “proprietà”, accumulate in anni di scorrerie. Anche la fattoria sulla collina di San Sebastiano Po, dove era acquartierato tutto il clan. Dopo le indagini patrimoniali gliel’hanno portata via.
Sequestrata prima, confiscata poi, assegnata come “bene mafioso” al Gruppo Abele di Luigi Ciotti ed adesso affidata a quei dodici uomini e donne che faranno lì – sull’altura – la loro comune.
Ma non sarà come quelle degli anni Sessanta e Settanta. “Al contrario il nostro progetto è mettere la comunità al servizio della famiglia per farla crescere”, racconta Andrea che ha trentun anni e fa il ricercatore all’Università. Angelo di anno ne ha venti di più ed insegna religione. Ricorda: “il nostro sogno è diventato realtà fra due Natali, la festa che è sempre stata il simbolo della famiglia”.
Era il 23 dicembre del 2006 quando Don Luigi li chiamò per la prima volta: “Ho pensato che la cascina di San Sebastiano sia il posto giusto per voi, quando ero giovane e stavo per aprire il Gruppo Abele mi hanno sbattuto tante porte in faccia, con questa cascina voglio dare a voi la speranza”.
Il 23 dicembre del 2007 Andrea e gli altri entreranno in possesso – fino al 2027 – di quasi mille metri quadrati. Due piani e una mansarda, quattro appartamenti nella cascina ristrutturata e altri tre ricavati dove ora c’è il fienile, il grande salone con la cucina, una cantina e poi tanta terra intorno.
E’ una scelta estrema, un cambiamento profondo per tutti loro. “La speranza è anche quella di vivere in un modo diverso dentro quelle mura”, sussurra Riccardo, anche lui trentun anni e anche lui insegnante in un liceo. Come tutti gli altri suoi compagni fa parte di quel “gruppo nel gruppo” che è l’associazione Comunità e Famiglia.
Ci vogliono sette minuti in auto per arrampicarsi sulla collina, ci son voluti tre anni di percorso per unire le tre coppie ed i quattro single in quest’avventura che sta per cominciare sotto Natale. “E sarà questo un Natale diverso per tutti noi, il primo insieme, il primo dove tutti abbiamo raggiunto la consapevolezza che, da soli, non avremmo potuto vivere pienamente”, dicono mentre descrivono il loro futuro. A San Sebastiano Po ognuno continuerà ad avere la propria abitazione ma con un patto di mutuo soccorso, di “vicinato solidale”.
Non ci saranno norme da rispettare ma solo reciproca fiducia. In nome della condivisione, dell’accoglienza, del sostegno.
La cascina dei Belfiore è già stata ripulita, i muratori hanno aggiustato i tetti e tirato su le pareti, riordinato la cantina.E’ quasi pronta per andarci ad abitare. Racconta ancora Andrea: “Era da tempo che molti di noi avevano manifestato la voglia di fare una vita in una famiglia allargata per condividere difficoltà e gioie”. E’ ancora la speranza che torna nei loro pensieri. Dice Cristina: “le persone, se si sostengono e si accompagnano e se riescono a considerare le loro differenze una risorsa, moltiplicano le loro potenzialità e riescono a fare cose che da soli non realizzerebbero mai”.
La cascina profuma di nuovo, di calce e pittura. “Ci saremmo dovuti entrare a Natale ma poi è successo quel che è successo”, sospira Riccardo. I Belfiore non se ne volevano andare dalla propria casa. Hanno persino provato a raccogliere firme in paese, dagli altri milleottocento abitanti volevano un “gradimento” sulla loro presenza a San Sebastiano. Ci sono state trattative estenuanti con la Prefettura ed il Comune, mediazioni per evitare l’intervento della forza pubblica. Poi i Belfiore hanno comprato un’altra cascina a qualche chilometro di distanza, a Casalborgone.
Da allora questi piemontesi “curiosi della vita” hanno cominciato ad immaginare quale sarebbe stata la loro nuova esistenza. E a programmarla. Faranno cassa comune. Verseranno i loro stipendi interamente nelle mani di un tesoriere, ogni primo del mese ciascuno di loro prenderà quel poco o quel tanto che servirà. E’ Elena che parla: “Una convivenza fondata sulla fiducia, il tesoriere consegnerà ad ogni famiglia ed a ogni singolo un assegno in bianco che sarà compilato a seconda delle proprie necessità e quello che non verrà utilizzato potrà servire per le altre famiglie”.
Nella cassa dovrà sempre restare comunque una piccola parte di fondo comune che loro chiamano “il certo”, denaro che andrà a finanziare altre comunità come quelle di San Sebastiano. “il certo è un altro punto di speranza per sentirci vicini a chi vorrà condividere questo nostro modo di vivere”, raccontano i nuovi inquilini di quella che è stata la fortezza dei Belfiore. Il più giovane è Matteo che ha ventitré anni e fa l’educatore, il più vecchio Dino che ne ha sessantadue ed è un pensionato. Vivranno insieme due o tre o anche vent’anni. E apriranno la cascina al paese. “E’ un bene confiscato, è un bene che deve essere restituito alla collettività”, dice Francesca, ventinove anni, assistente sociale. E aggiunge: “Ma non stiamo partendo con una idea precisa, strada facendo vedremo cosa fare, per il momento io sto realizzando un sogno che i miei genitori non hanno avuto il coraggio di realizzare da giovani. Invece di arrivare a casa la sera e chiudere la porta, proveremo ad aprirla e trasformare le parole che ci portiamo nel cuore in pratica quotidiana”.
Ci sono speranze e ci sono paure. Una su tutte. E’ Andrea che la tira fuori: “la più profonda è quella di aver inseguito un sogno per così tanto tempo e poi scoprire che non era quello che volevamo”. Anche vivendo insieme, nella grande casa sulla collina.
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